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Prof A. Poliseno
Stoicismo nell'Antica Roma
(3)
Come conciliavano i romani la loro base filosofica con la loro credenze
religiose? C'era una contraddizione, oppure era possibile essere
stoico e "pius" allo stesso tempo?
Cn. Salix Astur
Il termine latino pietas (corrispondente a quello greco eusebeia),
derivato di pius, è una disposizione d'animo a sentire devozione
ed affetto verso Dio, i genitori e la patria. Cicerone la ritiene
un atto di giustizia nei riguardi degli dei, e un "dovere (officium)
e cura (cultus)1 dei consanguinei".
Tommaso d'Aquino, per spiegare la qualità di questo rapporto,
notava che l'uomo è debitore nei confronti di altri in diversi
modi, commisurati al loro stato ed ad benefici da essi ricevuti.
Quindi siamo debitori verso i genitori e, per estensione, verso
i consanguinei e la patria, cioè verso tutti i cittadini.
Cicerone era invece convinto che la pietas, doveva esser grande
verso i genitori e i consanguinei e grandissima verso la patria.
Comunque, l'Enea virgiliano è pius per l'affetto mostrato
verso il padre.
Il termine è sempre presente nella dottrina stoica. Crisippo,
suddividendo in molte altre virtù le quattro fondamentali
indicate da Platone, Aristotele, Teofrasto, associò alla
giustizia: la pietà, la liberalità l'affabilità2.
Non si tratta di un atteggiamento esteriore, ma di un sentimento.
Basti ricordare la nota affermazione di Seneca: "Vuoi propiziarti
gli dei? Sii buono"3 E Lucrezio, coerente con la sua formazione
culturale, con non minore vigore affermò che non vi è
nessuna pietas "nel farsi vedere di frequente rivolto verso
una pietra con il capo coperto"4.
A mio parere, il dubbio sulla possibilità dello stoico di
essere pius riguarda soprattutto il rapporto con Dio che è
il principe degli analogati nei confronti della pietas, perché
non si può parlare di rapporto di riconoscenza, gratitudine
e venerazione verso un dio che non ci ha creati ed è della
nostra medesima natura. Cicerone notava che non vi può essere
nessuna pietas come vera devozione verso gli dei (nec est ulla erga
deos pietas).
Come si spiega allora la presenza della pietas in tutta la storia
dello stoicismo? Solo chi deve a Lui il beneficio della propria
esistenza sente il giusto dovere di riconoscenza, gratitudine, venerazione,
cioè il dovere della pietas .
Lo stoicismo porta con sé un equivoco inestricabile: sente
il dovere della venerazione, senza possedere il concetto di creazione,
cioè di un Dio personale e trascendente. Il tema della parentela
dell'uomo con Dio, che è tema dell'antica Stoà, nel
periodo romano assume riflessioni fortemente spiritualistiche e
quasi cristiane, ma non riesce a dare alle nuove istanze un adeguato
fondamento ontologico. E' un problema che interessa tutta la filosofia
antica. Basti ricordare che per Aristotele Dio, atto puro, muove
l'universo non agendo, ma attraendolo "come un essere amato
attrae l'amante"; lo muove come causa finale, perché
se si muovesse conterrebbe in sé un elemento potenziale.
Seneca considera Dio uno pneuma corporeo, ma molte sue affermazioni
lasciano capire che inclinava verso un concezione personale della
divinità. Adora devotamente il paesaggio, l'annosa foresta,
l'antro misterioso, la fonte che sgorga con primigenia violenza,5
ma per la sua religione è decisivo il rapporto personale
con Dio. Per eliminare ogni aspetto negativo nei suoi attribuiti
considera ogni decisione di Dio non una fatale predeterminazione,
ma una scelta giusta che accetta con gioia "non obbedisco a
Dio, consento con lui"6.
Anche Epitteto professa la fede in un dio immanente nel mondo; ritiene
che il cosmo sia un sistema costituito dagli dei e dagli uomini,
ma spesso sostituisce al plurale "dei" il singolare "Dio".
La sua religiosità ha un carattere personale. La sua fede
stabilisce un nuovo rapporto con Dio: "quando chiudete le porte
dietro di voi, non direte che siete soli: c'è con voi Dio".7
Ritiene che la sottomissione a Dio e alla sua legge non limiti la
nostra autonomia. Negli appunti delle sue riflessioni redatti da
Arriano non ricorre mai la parola heimarmene, mentre fa ricorso
ad espressioni analoghe a quella che abbiamo ricordata a proposito
di Seneca.8
Marco Aurelio crede negli dei: "dalle loro opere, delle quali
sono continuamente testimone, io so che essi esistono, e li venero"9.
Come filosofo pratica un rigoroso monoteismo, ma crede nella divinità
universale della Stoà: "Un mondo unico formato da tutte
le cose e un Dio presente in tutte le cose"10.
Lo stoicismo, se ebbe difficoltà a giustificare la pietas
verso gli dei, perché sprovvisto del concetto di creazione,
fu invece avvantaggiato per la sua dimensione umana. Marco Aurelio
ritenne suo dovere di imperatore, posto a capo dell'umanità,
passare "da un'azione utile a tutti ad un'altra azione utile
a tutti"11.
Lo stoicismo cercò di giustificare anche il politeismo romano,
affermando che la pluralità degli dei era riconducibile ad
un solo dio, rimase però prigioniero della sua premessa panteistica
che vanificava l'impossibile tentativo. Solo il cristianesimo, debitore
in questo della tradizione ebraica,
chiarì che Dio poteva essere creatore del mondo senza perdere
la sua trascendenza, e che l'uomo poteva dipendere da Dio, senza
perdere la sua autonomia. Ma abbiamo già rilevato che questa
carenza pesò su tutta la filosofia precedente. La cultura
romana aveva, a proposito della pietas, la stessa difficoltà
che abbiamo rilevata nello stoicismo.
Comunque, lo stoicismo non passò nella storia senza lasciare
traccia di sé. Ebbe il suo trionfo con uno schiavo filosofo
e con "un imperatore, il sovrano di tutto il mondo conosciuto,
che si professò Stoico ed operò d Stoico" (M.Pohlenz).
Poi declinò, ma alcuni suoi principi sono rimasti nella storia
della cultura.
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